Ci sono degli attimi, nella vita di un uomo, che attraversano il tempo di corsa, con il respiro fitto e agitato, e s’incurvano incurvando la vita, la vista, il tempo che attende come un compagno a cui affidare il testimone. Bisogna trattenere il respiro a lungo e forse anche contare non fa male. Attimi da percorrere in curva, dentro il passato che si svuota e senza memorie, come in una galleria che non ha luce perché la luce è oltre il buio uncinato, oltre il passato ormai esangue.
Poi, quando il respiro si fa regolare e la luce dissolve l’ignoto, vien voglia di sedersi, di ancorare il proprio tempo stremato e osservare. Osservare la nuova piega dell’anima che nasconde e che svela come una fotografia scattata nello stesso luogo a distanza di un giorno. Una luce differente, dettagli sorridenti, le ombre al guinzaglio, la ferita cucita e il sangue rappreso, lì intorno.
Tutto sembra tornare alla normalità ma rimane, incustodito come il rumore di sottofondo dell’esistenza, un desiderio d’altro o un dolore di rinuncia che, agitandosi attorno agli attimi ribelli, perde il suo appiglio e ronza sui pensieri con ronzio di zanzara, molesto e persistente.
Bisogna dimenticarsi di sé, raccogliere tutto ciò che è possibile in un punto e fissarlo, le parole stanche e ammutolite, il volto di chi ti era amico, la mano di un figlio che raccoglie sassi e terra, il volante consumato, le gocce che scivolano sul vetro, la canzone che cantava tua madre, le ore dimenticate, il sangue che hai donato per uno sconosciuto.
Così gli attimi rallentano, smorzano la loro agitazione, non s’incurvano e scivolano anch’essi, fragili punti da fissare, compagni leggeri delle gocce che si perdono nel vetro
[5 dic 2015]