Le parole sono morte, non tutte e non ovunque. Ci sono angoli dove si nascondono e respirano piano, per non farsi sentire, custodi di se stesse, vigili e determinate. Ma altrove sono morte, maleodoranti di trascuratezza e imbroglio, sono morte da tempo. Alcune per abuso di utilizzo, altre perché dimenticate e lasciate morire di inedia, come topi in gabbia o pesci sui barconi. Si sono consumate. E sono morte. A volte ne rimane il suono – articolato, allitterato o scivoloso -, un suono che rimescola la memoria alla ricerca di un significato riconosciuto, un significato che possa ricondurre alle cose use o ai tratti noti dell’agire quotidiano. In questo caso ci si ferma per qualche attimo, forse memori di un’età vissuta con le parole vive, senza riconoscere il mondo attorno. Altro è successo prima di adesso ma quest’altro è confuso, torbido, scivolato via.
Le parole muoiono e affondano nel fango delle ingiurie e del sentito dire, si dileguano, perdono la pelle, chiudono il vivere di molti, si rintanano nei libri scritti da persone schive, amare e d’amare.
Così non si ha nulla da dire o troppo da ripetere con indolenza sciatta perché la morte delle parole è la morte del pensiero, la morte del dialogo, la morte del nuovo. Si usano le frasi fatte e si ripercorre il passato con slogan ammuffiti, ci si incontra su discorsi già noti e si inveisce, si urla, si distrugge per fare qualcosa che non sappia di morte.
Le parole sono morte, quasi tutte e quasi ovunque. Ma in qualche angolo respirano parole vive, parole che non utilizziamo più perché incapaci di accudirle, respirano e nutrono pensieri, pensieri ben costruiti, con le parole odoranti di storia e di pensieri d’altri, di teatro e poesie, di teoremi e argomentazioni, odoranti di se stesse e di saperi.
Ma qui le parole continuano a morire, e noi con loro.