Quattro parole e due punti fermi. Basta poco per completare un muro. Faccio fatica. Così hai scritto, ed io comprendo. Non dovrei farlo, dovrei colpire il muro, arrampicarmi a mani nude, dovrei aprire varchi, picconare le zone più deboli. E invece comprendo, avverto tutta la tua fatica, i tuoi sguardi obliqui a limare delusioni e stanchezze amare, io so ciò che senti e ti ho visto, impotente, chiudere il passaggio, completare il muro. Mi dispiace. Così hai terminato e non ti ho più visto. Ma continuo a vederti, al di qua e al di là del tuo muro stanco e dispiaciuto, sei la rarità che mi da respiro e continuo a respirarti. Con la bombola d’ossigeno di ciò che mi riporta a te. Qualche fotografia, parole scritte, un rumore diverso, il colore della tua stanza, l’odore del mare, la scritta abbandonata su un muro, un cane bianco, il titolo di un libro, l’incedere incerto di una passante sconosciuta.
Quattro parole appena, legate e divise da un punto, chiuse da un muro. Poi più nulla.
Sento il tempo che si restringe e un punto, al di sotto del cuore, che accumula sconfitte e tristezze, un punto che si allarga e punge e gratta, come a ricordare che comunque tu viva, il dolore ti appartiene, feroce o mite che sia. Se con la mente riesco a vederti ancora, a mettere insieme le parti di noi che si aiutavano e a rimediare alla vista nera e opaca del muro, il mio corpo annulla parole e punti fermi e vuole smettere di essere, non solo di vivere, respirare, sopravvivere, esistere, non vuole avere alcuna identità, alcuna massa, alcuna percezione di sé. Sembra concentrarsi in quel punto e desiderare di lasciarsi inghiottire. Quattro parole, due punti fermi e un nulla.
Le esistenze hanno un inizio che non ricordiamo e una fine che non sappiamo, racimoliamo piaceri ad occhi socchiusi ogniqualvolta sia possibile farlo ma in fondo rimaniamo ignari di ciò che riesce a farci provare piacere o dolore, ignari di una mente che si rivolge sempre altrove quando pensa se stessa. Avevo bisogno di te perché non riuscivo a creare parole per dimenticare la mia esistenza, continuo ad avere bisogno di te perché non comprendo la necessità di esistere o di creare parole o di modellare silenzi. Oltre quel muro rimane il salto che non ho provato, la parola creata per capire la tua esistenza. E tu sei oltre un muro stanco e dispiaciuto, insieme al salto mai abbracciato e alla parola che segna il confine tra il vivere e il sopravvivere.
Oggi vivo domeniche sfrattate, delineate da orizzonti fasulli e voci scomparse, un gatto si muove tra le mie noie disordinate e lo osservo nei suoi movimenti lenti. Istinto, pensiero, coscienza, necessità, desiderio, qualche miagolio e il mio smarrimento. Cucino parlando al gatto che forse ascolta e forse comprende. Qualche miagolio e il riso coperto di curry e funghi a chiudere varchi umidi di nostalgia. C’è quel punto al di sotto del cuore che punge e non bastano i video di YouTube a distrarlo, non basta neanche la partita di scacchi abbandonata dentro al telefono che conserva il tuo numero. Non parlo più, il gatto si è appisolato sul tavolo, il muro sembra ben saldo.
Il ricordo fa male e allora lo evito, lo rimpicciolisco, ne faccio scarto, lo lancio lontano dal punto doloroso, lo dimentico, ne afferro un altro e lo sbriciolo, nel ricordo non ci sei tu ma solo il ricordo di te, l’idea di te, il desiderio di te, non c’è la tua voce che mette in equilibrio la chimica sparpagliata del mio corpo e l’umore sciatto dei miei giorni. Evito il pensiero, evito me stesso. Scelgo una nuova serie in tv e vado avanti senza me. Il gatto dorme, il cibo è pronto e le scene della serie inglese con i sottotitoli bianchi si muovono trascinando secondi e dialoghi che non seguo. In fondo è facile tirare il tempo in avanti, non devo fare nulla. Non fare fatica.
Non conto più il tempo, il tempo poco prezioso che non so come scorra dall’altra parte. Qui è pungente, stanco, dispiaciuto.