Già da un pezzo

Lui era morto dentro, già da un pezzo. Si svegliava al mattino e tornava a dormire la sera, senza un perché e senza respiri malati. Nutriva i suoi gesti di abitudine e pigrizia, ascoltava qualche pensiero seguendo con gli occhi le immagini di una tv distante. A modo suo viveva ma era morto dentro. Già da un pezzo.

Si chiedeva, di tanto in tanto, se fosse capace di modificare qualcosa nella sua vita, una vita che altri avrebbero definito senza dubbio normale, tra un lavoro più che rispettabile e una famiglia che, tutto sommato, stava in piedi. Lei era una donna alta e rassicurante, assidua lettrice dal carattere introverso, forse aveva perduto il senso delle cose ma nascondeva smarrimento e dubbi agli altri portando in cucina sempre nuove borse piene di spesa e una leggera ironia non sempre apprezzata. Lui la osservava e registrava la nuova misura della distanza che li separava.

Figli e gatti si muovevano con discrezione lasciando tracce e qualche tenerezza, lui raccoglieva il tutto e poggiava membra e pensieri sul divano, il cellulare da qualche parte e la coperta pronta anche d’estate.

Una vita normale, la passeggiata con il cane e l’auto da portare dal meccanico, la sveglia al mattino e l’ansia alla sera prima di prendere sonno, se gli riusciva.

Era morto dentro da tempo e il tempo del lutto l’aveva disperso in un mondo che non sentiva proprio. Soleva chiamarla solitudine e raccontava brevi storie di solitudini prima in quaderni conservati con cura e poi nel suo computer portatile, storie di donne o di uomini, indifferentemente che la solitudine non ha sesso. E si definiva anaffettivo pur adorando figli e gatti, ma con un forte dubbio perché era morto dentro e non poteva avere, nel contempo, appigli di vita, sensazioni di esistenza. Sono solo e non sento nulla, sono una medusa, soleva ripetere.

Cercava qualcosa che pensava si trovasse nei libri, nei film o nella musica, non sapeva neppure lui cosa fosse, un legame con la vita e con le vite degli altri, forse, una nota che potesse adagiarsi tra la mente e il cuore, un ritmo che scorresse insieme al suo sangue, che potesse addolcire l’attesa, che lo facesse correre madido di sudore a ridosso del mare, che riuscisse a scatenare un orgasmo. Cercava da tempo, e per tanto tempo, quando ancora poteva dirsi vivo. Ed era, forse, propria quella ricerca a tenerlo in vita, una ricerca aspra e non priva di dolori, addolcita fra libri e film, ruvida nelle relazioni con gli altri, uomini, donne e amanti, a volte rapida ed eccitante altre lenta e devastante. Cercava qualcosa ma non capiva cosa. Poi un giorno capì di essere morto dentro. E smise di cercare.

Aveva chiuso col mondo e si era rintanato nel suo mondo, il lavoro rispettabile, lei con le borse della spesa, i figli, i gatti, la passeggiata con il cane. 

Voleva comprendere la sua morte e il lutto che ne seguiva, voleva morire in pace. 

Cominciò a parlare di sé ad uno specialista di morti interiori, una volta a settimana.

Il suo sguardo perdeva d’intensità se osservava il mondo che aveva attorno e riprendeva vigore nel volgersi verso di sé, nell’osservare tutto ciò che lo caratterizzava, le rabbie e i timori, la noia e gli affetti. Ma più di ogni cosa provava a scoprire le relazioni, tutti i legami che lo tenevano in vita, da morto, dinanzi agli altri. Così parlando analizzava i suoi legami e sezionava la parte che interessava la sua anima, mostrava al suo sguardo incredulo le mille sfaccettature di mostri che abitavano in lui, piccoli mostri che non aveva mai riconosciuto, che avrebbe voluto gettare via ma che erano lì, con lui, a parlare di un’anima morta che non sapeva come sopravvivere.

Lui ogni mattina si svegliava e andava al lavoro, aveva molte cose da fare e sapeva come farle, e aveva figli e gatti da accudire e una lei la cui distanza si alimentava dei piccoli gesti del quotidiano. Non litigava mai ma lo feriva la bolla d’incomprensione che lo circondava. A volte, dimentico di essere morto dentro, piangeva di un pianto senza conforto.

Una volta a settimana si affacciava a vedere i mostri. Il cinico a ridosso della pelle e il malvagio, lì, in mezzo agli occhi, l’indolente girovago e l’insensibile, a cavalcioni sul cuore. Raccontava di sé e i mostri, a sentire il racconto, si mostravano o si mettevano da parte, sembrava uno show devastante e impietoso sulla vita di un morto dentro che, tra l’altro, era l’unico spettatore. I mostri avevano la sua voce e il suo volto, ricordavano i suoi ricordi e raccontavano i suoi racconti. La sera, smembrato, tornava sul divano, la coperta tirata e la tv accesa. Aspettava che i mostri si rimettessero a posto. Il cinico a ridosso della pelle, il malvagio in mezzo agli occhi, l’indolente  a girovagare e l’insensibile a cavalcioni sul cuore.

Lui teneva un segreto, ben custodito nel cuore e tra gli odori della sua vita. Non lo mise in mostra ed evitò di parlarne anche allo specialista di morti interiori, se lo tenne tutto per sé e lo inseguì solo nei silenzi. Forse ne parlava anche nei suoi racconti di solitudine che continuava a rileggere e a riscrivere. Se servisse a vivere non poteva più saperlo ma che servisse a morire innumerevoli volte ne era certo. Anche adesso che, adagiato sul divano ad osservare lei che poggiava le buste della spesa sul tavolo della cucina, e accarezzando un gatto dormiente, era morto già da un pezzo.

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